Inadempimento ai tempi del coronavirus
E’ stata sostanzialmente dedicata un’unica norma: il comma 6 bis, dell’art. 3, D.L. n. 6/2020, convertito con modificazioni nella L. n. 13/2020 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19), inserito dall’art. 91, comma 1, D.L. n. 18/2020 (Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19), a mente del quale: «il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi pagamenti»
Il «rispetto della misura di contenimento» è stato elevato a parametro di valutazione della imputabilità o meno dell’inadempimento. Ne deriva che, ai fini di tale valutazione, rileveranno pur sempre l’oggettiva possibilità per il debitore di adempiere e l’importanza dell’inadempimento avuto riguardo all’interesse del creditore (art. 1455 c.c) La preoccupazione del legislatore pare essere stata quella di affidare a una valutazione caso per caso l’opportunità che un determinato rapporto contrattuale mantenga o meno la sua efficacia e a quali condizioni in conseguenza della sopravvenienza sanitaria che si è dovuta fronteggiare.
La liberazione tout court del debitore o dello scioglimento dei rapporti negoziali in corso al tempo della pandemia, sarebbe stata misura irragionevole in quanto disancorata dal concreto atteggiarsi del regolamento contrattuale in rapporto al concreto dispiegarsi del rispetto da parte del debitore della misura di contenimento imposta , il legislatore ha dovuto optare per una soluzione per così dire «generale»,ovvero che il giudice dovrà sempre valutare il rispetto delle misure di contenimento ai fini dell’accertamento della colpevolezza.
Il che dimostra come la preoccupazione sia stata non solo di evitare il risarcimento del danno (per il caso di assenza di colpa nell’inadempimento), ma anche, e forse soprattutto, di mantenere in vita i rapporti contrattuali. Dall’art. 3, comma 6 bis, cit., traspare quindi, e ragionevolmente, una finalità non demolitoria dei rapporti contrattuali entrati in crisi in conseguenza della pandemia. Il debitore che versi in una condizione di incolpevole impossibilità di adempiere potrebbe eccepire la «inesigibilità» della prestazione.
L’impossibilità totale non imputabile al debitore estingue l’obbligazione ex art. 1256 c.c. Gli artt. 1463 ss. c.c. regolano gli effetti di tale estinzione nei contratti a prestazioni corrispettive: così nel caso di impossibilità totale la parte liberata non può domandare la controprestazione e deve restituire quella che abbia ricevuto (art. 1463 c.c.); l’estinzione dell’obbligazione deriva anche dall’impossibilità temporanea, quando avuto riguardo alla natura del contratto e al suo contenuto il creditore non può più pretendere la prestazione o ha perso interesse a riceverla (art. 1256, comma 2, c.c.); l’impossibilità parziale tendenzialmente non estingue l’obbligazione, e il debitore è liberato se esegue la parte possibile (art. 1258 c.c.), ma nei contratti a prestazioni corrispettive l’impossibilità parziale legittima il creditore o a pretendere una riduzione, oppure a recedere laddove non abbia un interesse all’adempimento parziale (art. 1464 c.c.)Anche la disciplina della eccessiva onerosità sopravvenuta è mossa da una logica di caducazione del rapporto contrattuale colpito dalla sopravvenienza. Infatti, nei contratti di durata o ad esecuzione differita se la prestazione di una parte sia divenuta eccessivamente onerosa (per circostanze straordinarie o imprevedibili, non imputabili al debitore), questa può domandare la risoluzione (art. 1467, commi 1 e 2, c.c.); e la possibilità di evitare lo scioglimento del contratto, riconducendolo a equità, è concessa solo in via d’eccezione (art. 1467, comma 3, c.c.).
L’«inesigibilità» della prestazione, in virtù della quale il debitore può paralizzare la pretesa creditoria nei casi in cui la prestazione potrebbe essere adempiuta solo ricorrendo a mezzi anormali, secondo un autorevole insegnamento si risolve in una sottospecie dell’impossibilità, poiché nel sistema impostato dagli artt. 1218 e 1256 c.c. detto rimedio rinviene la sua essenza nella sopravvenuta illiceità dell’oggetto della prestazione, riguardata secondo il canone della buona fede[10]. Tale rimedio, per le osservazioni fatte, sconta anch’esso il limite della caducazione del rapporto obbligatorio.
Parimenti il ricorso al principio di correttezza e buona fede non sembra appagante per i fini di conservazione del rapporto contrattuale. Laddove tale principio sia invocato nell’ambito della valutazione circa la «inesigibilità» della prestazione, si espone agli stessi limiti evidenziati con riguardo all’impossibilità sopravvenuta (data la sostanziale sovrapponibilità di tali rimedi). Considerando, invece, il principio di correttezza e buona fede in via autonoma, mi pare che esso, operando sul piano comportamentale, attenga alla fase dinamica del rapporto contrattuale e non possa che rilevare sul piano soggettivo; per cui non può integrare il contenuto del contratto per la necessità di adeguarlo alla sopravvenienza, e l’intervento giudiziale che ad esso si ispirasse sarebbe limitato al piano del risarcimento del danno.
Tenuto conto che l’art. 3, comma 6 bis, cit., non pare avere i caratteri della norma sostanziale offrendo solo un criterio di valutazione di un certo comportamento («il rispetto delle misure di contenimento») in termini di inadempimento colpevole; e considerato, quindi, che difetta con riguardo alla pandemia una norma puntuale di risoluzione dei conflitti interindividuali, nonché – per l’eccezionalità dell’evento – una disciplina consuetudinaria, vi è ampio spazio per l’operatività del giudizio equitativo. Del resto l’approccio equitativo consente di evitare una rigida applicazione delle norme di diritto – anche in via analogica –, che non pare la soluzione più idonea ad interpretare le esigenze del particolare momento storico che stiamo vivendo. L’equità giudiziale, essendo svincolata dalla pura applicazione della norma giuridica –– si presenta come la più idonea funzione di tutela dell’interesse pattizio, conciliandosi con la specialità e l’eterogeneità di struttura (e di scopi) proprie del regolamento negoziale così come intessuto dall’autonomia privata.
Secondo il procedimento di equità al giudice compete, dunque, l’importante funzione di amministrare la giustizia caso per caso, stabilendo, a seconda del concreto assetto di interessi impostato dalle parti, se risolvere il rapporto contrattuale, se conservarne l’efficacia ed a quali condizioni, se accordare un risarcimento del danno (determinandone se del caso la misura), e finanche se dichiararlo in tutto o in parte nullo[
l’essenziale ruolo degli avvocati La fase della ripartenza, cosiddetta «fase due», si caratterizzerà verosimilmente per una domanda di giustizia rilevante, considerato che il lockdown ha sospeso quasi totalmente l’attività privata, dal sistema produttivo a quello commerciale; tale domanda si innesterà sull’arretrato giudiziario già esistente ante pandemia e, pertanto, la ripartenza, che dipenderà comunque anche dalla soluzione dei conflitti interindividuali, rischia di subire una considerevole flessione.
La funzione di negoziatore dell’avvocato è stata sempre più istituzionalizzata dal moderno legislatoreA breve l’avvocato sarà chiamato a svolgere, più che mai, una essenziale funzione sociale, etica – prima ancora che deontologica –, ovvero quella di assistere le parti nel ricercare le soluzioni più idonee al riassetto del regolamento contrattuale, alla rimodulazione del contenuto negoziale, e in particolare quelle soluzioni capaci di redistribuire i costi della crisi pandemica in un assetto di equo contemperamento degli opposti interessi.
In tale difficile compito potrà fungere da ausilio all’opera di negoziazione la capacità prognostica, di cui l’avvocato è ontologicamente dotato, rispetto alla prevedibile soluzione rimediale che il giudice farebbe propria in ambito giudiziale,e quindi fuori dalle aule di giustizia, con intuitivo contenimento di costi e tempi della «giustizia emergenziale».