Demansionamento e diritto al risarcimento del danno non patrimoniale.
La giurisprudenza unanime ha stabilito che il procedimento logico-giuridico del giudice nell’accertamento del demansionamento non può prescindere da tre fasi successive:
- accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte;
- individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria;
- raffronto tra il risultato della prima indagine e le previsioni della normativa contrattuale individuati nella seconda.
Una volta accertato l’evento, va accertato il danno che ne consegue.
Infatti, il risarcimento del danno professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma deve essere provato mediante una specifica allegazione, circa la natura e le caratteristiche del pregiudizio medesimo.
Tale prova può essere acquisita in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo precipuo rilievo quella per presunzioni; tuttavia, il ricorso a quest'ultime è consentito a condizione che sia stata allegata la natura del pregiudizio e che il ricorrente abbia dedotto e provato circostanze diverse e ulteriori rispetto al mero inadempimento, che possano essere valorizzate per risalire dal fatto noto a quello ignoto (Cass. 28 luglio 2020, n. 16129; Cass. 3 gennaio 2019, n. 21; Cass. 2 agosto 2019, n. 20842; Cass. 23 marzo 2020, n. 7483; Cass. 16 dicembre 2020, n. 28810).
Di conseguenza, il lavoratore deve fornire specifiche allegazioni ai fini del riconoscimento del danno professionale, biologico ed esistenziale (Cass., 15 giugno 2012, n. 9860), in quanto il pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo (cfr. Cass., 17 dicembre 2020, n. 29012; Cass., 10 ottobre 2018, n. 25071; Cass., 20 luglio 2018, n. 19434; Cass., 19 marzo 2013, n. 6797 Cass., 17 settembre 2010, n. 19785).
Pertanto, la giurisprudenza di legittimità ritiene ormai pacifica la risarcibilità del "danno non patrimoniale alla professionalità", ma solo di recente è stato specificato che: “in tema di dequalificazione professionale, è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che costituiscono oggetto di tutela costituzionale, da accertarsi in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all'inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o di svilirne i compiti” (Cass. n. 24585 del 2019; Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 23/07/2020) 03-02-2021, n. 2472).
Ne consegue che tale tipologia del pregiudizio, come riconosciuto, determina la sua appartenenza alla fattispecie del danno emergente, e non di lucro cessante ravvisabile nelle ipotesi di perdita derivante dalla mancata percezione di redditi di cui siano maturati tutti i presupposti, per cui non è considerata reddito soggetto a tassazione.
Il danno non patrimoniale, così definito e provato, viene quantificato sulla base del parametro normalmente utilizzato dalla giurisprudenza per la valutazione equitativa del danno e consiste in una quota della retribuzione mensile, che può essere anche determinata in misura crescente rispetto al perdurare nel tempo della lesione alla professionalità (Cass., 11 maggio 1999, n. 4653, in Giust. civ. mass., 1999).
Tale calcolo va calibrato non già sulla retribuzione percepita dal lavoratore, bensì su quella che sarebbe spettata se, per la professionalità acquisita e la sua ulteriore valorizzazione, egli avesse conseguito la qualifica di dirigente (Cass., 19 aprile 2012, n. 6110).
I criteri di valutazione equitativa adottati dal giudice devono comunque consentire una valutazione che sia adeguata e proporzionata, in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato (Cass., 20 giugno 2019, n. 16595; Cass. 26 maggio 2020, n. 9778).